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Il lutto e la melanconia: notazioni importanti sulla depressione e la mania

Nel febbraio del 1910, Freud scriveva all’amico Pfister: “ecco una questione che ci si presenta al tempo stesso inevitabile – chi può evitare la fine? – e scomoda – il pensiero se ne lascia toccare e subito la sposta, la sminuisce, la rifiuta” (Freud S., Pfister O., 1990).

In Lutto e melanconia (1917), Freud definisce il lutto come una fisiologica, dunque normale, reazione alla perdita. Tale perdita può riguardare non solo la morte di un caro ma anche la fine di una relazione d’amore o la disillusione rispetto ad un affiatamento ideale.

Il criterio che permette di definire il lutto come “normale” è rintracciabile nel concetto e nella competenza all’investimento.

Quando l’individuo subisce una perdita, si ritroverebbe nella necessità di ritirare l’investimento libidico da quella relazione, a patto che vi sia un’ammissione realistica circa l’effettiva scomparsa dell’amato. Sarebbe proprio l’esame di realtà, di fatti, a permettere di affrontare gli eventi positivi e negativi elaborandoli e facendone tesoro (Pediconi M. G., Romani S., 2004). La libido verrà momentaneamente investita sull’Io e sarà necessario del tempo perché possa essere reinvestita sugli altri del mondo esterno.

Tale processo elaborativo attraverserebbe un momento di sovrainvestimento dei ricordi e delle aspettative legati alla relazione troncata. Il fatto di mantenere vivi tali ricordi attraverso il sovrainvestimento degli stessi e riversando su di essi energia pulsionale, risulta un movimento funzionale ad allontanare le considerazioni di perdita sostituendole con altri ricordi (positivi).

Questa risulterebbe nondimeno una fase di profonda sofferenza, scoramento e inibizione, caratterizzata dal venir meno dell’interesse per il mondo esterno (Freud S., 1917).

Solo dopo aver prolungato psichicamente l’esistenza dell’oggetto, mediante le modalità sopra descritte caratterizzanti una speciale fase depressiva, l’Io diverrà gradualmente libero permettendo il distacco della libido da tutto ciò che riguarda l’amato (Pediconi M. G., Romani S., 2004).

In questo caso nulla di quanto accade è inconscio, colui che ha subito la perdita sa chi o cosa non c’è più, quando è scomparso e in che modo; ciò è la diretta conseguenza dell’intervento del principio di realtà, nonché dell’integrità di un Io che ha saputo mantenere la competenza alla costruzione del rapporto e non ha smesso di preparare il posto occupabile da un altro (Contri G.B., 1998).

Il lutto dunque rappresenta un “lavoro” che permette una possibile elaborazione e che subentra sotto l’influsso dell’esame di realtà, il quale esige che ci si debba distaccare dall’oggetto che non esiste più. Il carattere doloroso di questa separazione deriva dall’elevato investimento nostalgico sull’oggetto perduto, con cui il legame ha da essere sciolto (Freud S., 1925).

Freud introduce una distinzione tra questo normale processo di lutto, descritto poc’anzi, e la melanconia mettendo in rilievo come entrambe le condizioni si presentino con tratti comuni, pur differenziandosi in modo sostanziale.

L’aspetto comune maggiormente saliente è rappresentato dalla perdita. Tuttavia nel lutto troviamo la perdita di un oggetto reale e il conseguente impoverimento del mondo esterno. L’Io non è scisso né sopraffatto dall’oggetto: è il mondo che è in perdita e l’Io deve accettarlo. Al contrario nella melanconia è l’Io a risultarne impoverito.

Freud definirà la melanconia un’“affezione narcisistica”, in quanto si assiste ad una regressione della libido, la quale viene ritirata sull’Io. Aspetto che vi si ritrova anche nel normale processo di lutto; alla fine del quale, tuttavia, la libido è resa nuovamente disponibile per gli investimenti sul mondo esterno (Freud S., 1914; 1917).

Associato a questo processo che trasforma la libido oggettuale in libido narcisistica, riscontriamo un conflitto d’ambivalenza che conduce alla sostituzione dell’amore con l’odio verso sé stessi per via dell’identificazione dell’Io con l’oggetto perduto.

Freud, dirà: “L’ombra dell’oggetto cadde così sull’Io che d’ora in avanti poté esser giudicato da un’istanza particolare come un oggetto, e precisamente come l’oggetto abbandonato. In questo modo la perdita dell’oggetto si era trasformata in una perdita dell’Io, e il conflitto fra l’Io e la persona amata in un dissidio fra l’attività critica dell’Io e l’Io alterato dall’identificazione.” (Freud S., 1917 p.11).

Ed è proprio l’identificazione narcisistica con l’oggetto perduto a trasformare l’aggressività etero-diretta in aggressività auto-diretta. Si arriverebbe ad un vero e proprio “delirio di inferiorità”, caratterizzato da auto-denigrazioni, auto-ingiurie e auto-colpevolizzazioni; spesso completati da insonnia e rifiuto al nutrimento.

L’ostilità che appare rivolta al Sé rappresenta una trasposizione dell’aggressività originariamente diretta verso l’oggetto ormai assimilato dall’Io. Un Io scisso: una parte identificata con l’oggetto; l’altra assume una forma iper-critica nei confronti dell’identificazione.

Il meccanismo di scissione mantiene altresì vivo il conflitto di ambivalenza, che inibisce la possibilità di trasformare l’amore per l’oggetto, una volta introiettato, in amore per sé stessi. In quanto l’amore che vincolava il soggetto all’oggetto viene trasformato in odio a seguito dell’abbandono (Pediconi M. G., Romani S., 2004). Aspetto che appare maggiormente comprensibile facendo riferimento alle dinamiche di traslazione: il transfert nei confronti dell’analista può passare da positivo a negativo quando il paziente si rende conto che il clinico non può soddisfare e non soddisferà mai i suoi desideri; i sentimenti positivi, d’affetto, vengono dunque sostituiti da odio e repulsione (Freud S., 1912).

Emerge, ancora, una forte contraddizione tra il senso di autodenigrazione e la realtà. Chiunque esperisca in modo autentico un vissuto di nullità e una perdita dell’autostima, manifesta inevitabilmente un sentimento di vergogna. Vergogna che appare assente nel melanconico, lasciando spazio ad un assillante bisogno di comunicare.

Questo renderebbe conto del fatto che tali auto-accuse non siano realmente reali ma dirette a qualcun altro da sé.

Non sempre tuttavia appare facile individuare l’altro “reale” cui sono rivolte le accuse, in quanto la perdita, nel caso del melanconico, risulta essere più di tipo “ideale”. Questa perdita può essere relativa alla morte di una persona cara, un abbandono, o ancora talvolta il paziente non sa cosa è andato perduto (Pediconi M. G., Romani S., 2004).

Ancora, Freud dirà: “Saremmo inclini a connettere in qualche modo la melanconia a una perdita oggettuale sottratta alla coscienza, a differenza del lutto” (Freud S., 1917, p. 104).

Di fatti il soggetto melanconico, collocandosi nell’area della psicosi, non risulta in grado di effettuare l’esame di realtà.

Potremmo dire che successivamente alla perdita avvenga un diniego della perdita stessa. Non si tratterebbe, dunque, di una perdita che viene sottoposta ad elaborazione mediante il lavoro del lutto ma di una rinuncia all’elaborazione stessa (Freud S., 1924).

Gli esiti possibili della melanconia possono essere due: la depressione cronica o recidivante o la mania. I sintomi riguardanti queste due entità nosografiche risultano fenomenologicamente agli antipodi.

La persona affetta da mania risulta assalita da una improvvisa spinta all’azione, di fatto Freud (1917) parlerà di improvvisi sovra-investimenti narcisistici trasformati in investimenti oggettuali.

L’eccesso di energia a disposizione, viene investita dalla persona maniacale in comportamenti come: lo sperpero di denaro, logorrea, assenza di riposo notturno. Appare come un affamato, impegnato alla ricerca di nuovi investimenti oggettuali (Freud S., 1917).

Ma per fare ciò significa che deve avvenire un distacco dall’oggetto.

Tanto nel processo del lutto normale quanto nella melanconia, i tentativi di disinvestimento libidico si attuano a livello inconscio.

Tuttavia, nel caso del lutto, tali processi riescono a transitare attraverso il preconscio fino a raggiungere la coscienza, permettendo così una progressiva elaborazione della perdita. Diversamente, nella melanconia, questo passaggio si interrompe: ciò che giunge alla coscienza non è il lavoro elaborativo del lutto, ma il prodotto del conflitto d’ambivalenza nonché della regressione della libido.

Secondo questa prospettiva, è possibile ipotizzare che l’esito, nella melanconia, sia l’abbandono dell’oggetto incorporato con il quale il soggetto si è identificato.

L’oggetto, ormai svalutato e distrutto sotto il peso delle accuse, dei rimproveri e delle denigrazioni mosse dall’istanza critica, diviene privo di valore e infine rifiutato (Pediconi M. G., Romani S., 2004; Freud S., 1917).

Altro esito della melanconia, oltre alla depressione e/o alla mania, è il suicidio.

Freud, inizialmente postulò che il suicidio fosse il risultato di uno spostamento di impulsi omicidi e distruttivi verso l’oggetto incorporato; diretti invece contro il Sé.

Tale esito della melanconia può essere spiegato esclusivamente mediante il sadismo (Freud S., 1915; 1917): “solo quando, grazie al ritorno dell’investimento oggettuale, riesce a trattare sé stesso come un oggetto, quando può dirigere contro di sé l’ostilità che riguarda un oggetto e che rappresenta la reazione originaria dell’Io rispetto agli oggetti del mondo esterno” (Freud S., 1917, p. 111).

Sebbene le autoaccuse possano superficialmente apparire come espressione di un atteggiamento masochistico, tale interpretazione risulta inadeguata. Il rivolgersi dell’aggressività contro il Sé, nel melanconico, non implica, infatti, l’assunzione di una posizione passiva, caratteristica del masochismo.

È dunque l’aggressività rivolta all’oggetto che si trasforma in auto-punizioni e auto-ingiurie, senza però configurare un quadro masochistico, così come non lo è il suicidio (Freud S., 1915; 1917). Di fatto queste auto-accuse si adattano quasi perfettamente all’oggetto perduto, e risultano nondimeno foriere di godimento, venendo in esse soddisfatte le spinte sadiche verso l’oggetto introiettato (Freud S., 1917).

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